La donna della tenerezza
È la figura centrale (che simboleggia l’amore di Dio e l’accoglienza della Chiesa) dell’opera d’arte di p. Ugolino da Belluno. La grandiosa realizzazione narra la parabola del Figlio prodigo.
La nuova Basilica di San Gabriele dell’Addolorata, si è arricchita della sua prima opera d’arte: una grandiosa vetrata, opera di p. Ugolino da Belluno, che è stata sistemata in via definitiva, nei giorni antecedenti il Natale, nella “Penitenzieria” del Santuario.
La ”Penitenzieria” è il luogo dove sono collocati i “’confessionali”, il “’cuore” stesso della Basilica, dunque, dove i pellegrini assolvono al bisogno profondo di riconciliazione con Dio e con i fratelli, che poi è il principale obbiettivo della loro visita al Santo.
Logico, quindi, che non solo la sala, non solo l’arredamento, non solo la globalità dell’ambiente, risultassero ispirati a questa “destinazione”, ma anche le preziosità artistiche che ne sono irrinunciabile complemento. Di qui il soggetto della vetrata che narra, in una gradevole ed appagante suggestione di luci e di colori, l’evangelica parabola del “Figliol prodigo”, figura emblematica e senza tempo di quella rivoluzione misteriosa che avviene nel profondo dell’animo umano che deride di orientare la propria vita verso Dio.
Già la collocazione stessa della vetrata (al lato sinistro dell’ingresso della Penitenzieria) e le sue stesse dimensioni (35 mg) sono di per sé simbolo eloquente. Il pellegrino viene subito investito da questa cascata di luci e di colori che preannunciano, quasi, l’imminente dilagare della grazia di Dio, e si sente immerso, quasi costretto, al raccoglimento ed alla riflessione.
La vetrata si compone di tre parti distinte, separate verticalmente da bande geometriche, a scacchiera; una separazione che sottolinea i tre momenti della narrazione evangelica, rendendoli perciò stesso più leggibili: il momento della lontananza (a sinistra), quello dell’abbraccio con il Padre (al centro), il momento della festa, che contrasta con l’ira del fratello maggiore e “fedele” (a destra).
Ma è la parte centrale della vetrata che, per la sua composizione colorica e per la sua grandezza (è esattamente il doppio delle altre due parti), accentra subito l’attenzione del visitatore. Il cromatismo dominante è il rosso che, spiega padre Ugolino, immette in un prepotente sentimento di amore.
Questo rosso si diparte, a raggera, da un cuore azzurro (il cuore dei passionisti) delineato dalle stesse figure che “’comprende”’: il Padre che nell’atto dell’abbraccio ha il volto seminascosto dal figlio; il figlio che vuole inginocchiarsi, ma è trattenuto dal Padre; una donna nel gesto dell’accoglienza, la sola ad avere il volto scoperto, che rappresenta insieme la Chiesa e la tenerezza di Dio (di qui l’azzurro della figura intera).
“A farmi introdurre la donna (che non fa parte del racconto evangelico) nella vetrata – spiega padre Ugolino – fu il ricordo di quel memorabile discorso che tenne Papa Luciani proprio sulla tenerezza di Dio quando, ricalcando la Bibbia, volle assimilarlo più ad una madre che ad un padre”.
La prima parte della vetrata, a sinistra, mostra il figlio prodigo nella sua condizione di pascolatore di porci. È nel pieno del suo dramma interiore, della consapevolezza della sua condizione del più umile dei “’servi”, lui che era figlio (diremmo con una espressione aggiornata) di un latifondista. Ma ha la testa fra le mani, quasi a materializzare l’atto del rientrare in sé.
Atto simboleggiato anche da una lampada che gli sta a lato (“la lampada di Diogene – dice padre Ugolino – la lampada dell’alchimia medioevale”). La bellezza di questa parte sta proprio nella sublime sintesi che l’artista opera tra i due tempi della conversione e del ritorno. Quasi come in un “fumetto”, sul capo del figlio pentito si apre un cerchio di fronde tenui e luminose tra le quali spicca la figura di un uomo che, sacca in spalla, e già in cammino. Due tempi che diventano un tempo solo: l’uomo che decide di cambiare la propria vita volgendola al bene, ha già, di fatto, cambiato vita.
E veniamo alla terza parte, lineare e complessa insieme proprio per il contrasto che evidenzia tra il sentimento della gioia e quello dell’odio. Il Vangelo narra che, una volta a casa, il Padre dette ordine che per il figlio ritrovato si preparasse un vestito nuovo, gli si infilasse un prezioso anello al dito, si ammazzasse il vitello più grasso e si banchettasse e si facesse festa a suon di musica. E mentre tutto ciò accadeva, ecco il fratello maggiore tornare dai campi, chiedere che cosa stesse accadendo e, avuta risposta da un domestico, rifiutarsi di entrare in casa. Allora il Padre si fa sulla porta per invitarlo ma il figlio, diremmo oggi, perde ancor più le staffe e gli rinfaccia ogni cosa: per me che ti sono stato sempre accanto, non hai mai organizzato un banchetto, ma per lui che, andato via, ha dilapidato tutta la sua parte di patrimonio, ecco che ordini una festa così grande. E il Padre: tu sei stato sempre con me, e ciò che è mio è tuo, ma tuo fratello era perduto e l’ho ritrovato, era come fosse morto, ed è risuscitato.
Questa parte della vetrata racconta ogni cosa. In alto ecco tutti i simboli della festa: il vitello, l’anello, la veste nuova, i nuovi calzari (le nuove scarpe), il flauto, il liuto, il tamburello. In basso c’è il padre invitante, mansueto, dolcissimo, sulla soglia di casa; e, appena fuori, c’è il figlio che impreca, le mani e il volto verdi dall’ira.
Dietro al figlio, oscura e orribile, si intravvede una figura mostruosa, il demonio, colui che spinge l’uomo al male.
Come nel Vangelo, la vetrata si “chiude” su questa figura del figlio maggiore la cui fine è incerta, anche se è lecito pensare che anche per lui a prevalere sarà l’amore del padre. E come nel Vangelo, già s’è detto, la vetrata ha solo lo scopo di sottolineare questo amore sconfinato che “è più forte di ogni peccato”.
Chi, per accostarsi al sacramento della riconciliazione, “’passerà” per questa vetrata, avrà la sensazione “fisica” di questo amore, che è il culmine di ogni avventura umana e sola certezza di riscatto.
Quella di padre Ugolino non è dunque “solo” opera d’arte, ma strumento di catechesi. E solo un grande artista poteva operare questa felice sintesi tra le ragioni del bello e quelle della fede.
Articolo pubblicato da:
L’ECO di San Gabriele, Febbraio 1987, pp. 36-37