La prossima primavera potremmo essere chiamati a votare su alcuni quesiti referendari. Lasciamo in secondo piano, per un momento, la considerazione che nell’età dell’astensionismo patologico lo strumento della consultazione abrogativa ha ormai perso la propria efficacia. Il quorum del 50 per cento dei votanti è troppo elevato. Le firme si raccolgono, online, più facilmente ma poi bisogna andare alle urne. Quel quorum fu pensato dai costituenti come il limite necessario per far sì che una forma di democrazia diretta non delegittimasse le assemblee rappresentative. Dunque, le proposte di abbassarlo non hanno alcun senso. Una minoranza non potrebbe abrogare una legge votata dalla maggioranza delle Camere rappresentative di tutti gli italiani. Dopo il ventennio fascista, il recarsi alle sezioni elettorali era non solo un dovere ma persino un rito collettivo liberatorio, una festa popolare, una rivincita, soprattutto per le donne che non avevano mai avuto questo diritto. Oggi non è più così, purtroppo.
La Cgil ha raccolto più di un milione di firme che ha consegnato in Cassazione. Riguardano quattro aspetti del celebre Jobs Act, di renziana memoria: dal ripristino delle garanzie sui licenziamenti previste dal vecchio articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (legge del 1970), alle misure sulla flessibilità dei contratti, nell’ottica di combattere la precarietà. Però, forse anche per quell’odiata riforma del mercato del lavoro di un premier del Partito Democratico, per quanto poi transfuga e forse troppo dannato, gli occupati sono aumentati negli anni fino a superare i 24 milioni. Un record. E, per giunta, i contratti a tempo indeterminato sono cresciuti più di quelli a termine anche perché le aziende, quando si trovano di fronte a risorse scarse, tendono a trattenerle a ogni costo. Oggi non mancano solo i profili qualificati ma addirittura le persone. La disoccupazione è ai minimi, intorno al 6 per cento. Il tasso di occupazione ha superato il 62 per cento. Non era mai accaduto. Certo, i giovani e le donne sono ancora le categorie più penalizzate, quelle che faticano a trovare posti soddisfacenti e a imboccare percorsi professionali appaganti, non solo sotto il profilo retributivo. Gli occupati in altri Paesi superano l’80 per cento e, dunque, di strada da fare ce n’è ancora molta. Ma, a meno di una recessione drammatica che nessuno si augura, è del tutto improbabile che la gente senta la necessità di cancellare il Jobs Act e precipitarsi alle urne. La Cgil rischia di replicare quello che accadde, a metà degli anni Ottanta, con il referendum sulla scala mobile fortemente voluto dal Partito Comunista di Enrico Berlinguer. La direzione che lo approvò fu molto tormentata. Giorgio Napolitano e Nilde Iotti si espressero contro. Anche Massimo D’Alema ebbe forti dubbi. Ma ormai la sfida nelle piazze contro il taglio dei punti di contingenza del decreto di San Valentino del governo Craxi era lanciata. Contro un muro.
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