“Capita non di rado – osserva l’autore del libro Dieci lezioni sul male – che i ragazzi avvertano, da parte dei genitori, una sorta di obbligo a proteggerli anche oltre i termini naturali dell’infanzia. Questa aspettativa fuori luogo può produrre uno stato di disagio molto importante…”
Un 22enne che uccide la zia; un ragazzino 15enne bullizzato che si toglie la vita con la pistola del padre; un diciannovenne che uccide un giovane per delle cuffie wireless dal valore di 20 euro; un 17enne che uccide con sessantotto coltellate padre, madre e fratellino perché si sentiva un estraneo, non solo in famiglia. E ancora la “villetta degli orrori”, in provincia di Parma, dove una studentessa è accusata di aver ucciso e seppellito in giardino i suoi due neonati.
Sono solo alcuni casi recenti che la cronaca quotidianamente ci racconta, una lunga scia di violenze e dolore alla quale, ahinoi, si aggiungono i tanti casi di femminicidio. Solo un dato per capire di cosa stiamo parlando: dall’inizio dell’anno fino allo scorso metà ottobre, le vittime sono 93, una donna uccisa ogni 3/ 4 giorni…
Inevitabilmente, dunque, davanti a uno scenario del genere in tanti s’interrogano sulle cause. Oltre a situazioni di grave disagio individuale, sotto la lente finiscono i social network, che isolerebbero sempre più i nostri giovani, la noia che li avvolge, dipendenze come droga, ludopatia e alcool, il rancore sociale, famiglie troppo spesso inadeguate, un approccio educativo sbagliato, la mancanza di amore vero, il valore della vita ridotto a una sorta di “prodotto” di nicchia…
Chi ce l’ha la risposta giusta per provare a spiegare e quindi contrastare questo problema generazionale? Quello che sappiamo con certezza è che i giovani sono portatori di una speranza intrinseca che sarà il motore delle future società. Ecco, allora, che occorre strenuamente tenere accesa quella speranza perché sarà l’unica in grado di disegnare un mondo migliore. Parliamo allora ai nostri figli del passato, offrendo strumenti utili per conoscere meglio la loro realtà e se stessi. Un contributo importante, infatti, deve arrivare soprattutto dalla famiglia, da noi “anziani” e dalla nostra capacità di narrare, di far memoria a chi oggi vive una generazione “accelerata” che spesso rischia di creare veri e propri deserti nell’anima. Testimoniare a loro, sin da piccoli, l’importanza della storia, della necessità di difenderla perché senza radici non si può guardare al futuro. E un presente sospeso nel vuoto, in uno spazio “senza tempo”, corre il pericolo di diventare insignificante.
Mauro Grimoldi, cinquantacinque anni, è uno stimato e noto esperto di criminologia minorile e disturbi del comportamento in adolescenza. Psicologo giuridico del tribunale di Milano, consulente abituale per la Corte d’Appello di Milano, i tribunali di Monza e Piacenza e il tribunale per i minori di Brescia, ha ricoperto la carica di presidente dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia. Formatore e docente di Deontologia professionale e Criminologia minorile, è anche uno scrittore apprezzato, il suo ultimo lavoro portato in libreria s’intitola Dieci lezioni sul male – I crimini degli adolescenti (Raffaello Cortina Editore, pp.296, euro 19,00).
Sposato, ha due figli ed è un grande appassionato di volo e alpinismo.
Con lui, dunque, cerchiamo di analizzare alcune facce di un fenomeno di crescente allarme sociale dove il concetto di famiglia rischia di andare in frantumi.
Ormai non passa giorno senza la notizia di un omicidio all’interno del nucleo famigliare. Cosa sta accadendo dottor Grimoldi?
Diciamo innanzitutto che i vari casi andrebbero analizzati uno per uno. Quello che si può dire, facendo un ragionamento di massima, è che il rapporto adolescenti-genitori, all’interno del sistema familiare, è un tema dibattuto da sempre. Il compito evolutivo principale dell’adolescenza si chiama separazione-individuazione. L’adolescente ha l’esigenza di celebrare una sorta di rituale che sancisce, simbolicamente, il lutto del bambino che è stato per far nascere un soggetto nuovo. L’adulto che sarà e che si appresta a essere. L’adolescenza, quindi, ha come suo periodo di passaggio questa caratteristica particolare. Ovviamente, e questo riguarda soprattutto l’epoca attuale, la difficoltà che è rappresentata dai percorsi di separazione e individuazione nasce dal fatto che in qualche misura noi abbiamo costruito un tipo di famiglia che protegge il bambino dalle frustrazioni. È una famiglia che è molto presente, che mette il bambino a capotavola del desco familiare. Ciò regala sicuramente un’infanzia molto gratificante ai cuccioli di uomo, per certi versi, li facciamo veramente crescere con una marcia in più…
Però…?
C’è un rovescio della medaglia di questo stile educativo che in qualche modo riguarda i genitori, sicuramente dalla rivoluzione culturale del ‘68 sino a oggi. Molto spesso le frustrazioni, i no che la vita mette di fronte inevitabilmente, si spostano temporalmente proprio all’epoca in cui avviene questo percorso di separazione-individuazione. Cioè l’epoca dell’adolescenza. Quella in cui arrivano i no: dalla scuola, dalle prime esperienze amorose, dalla relazione con i pari, da diverse situazioni che possono mettere i ragazzi di fronte a qualcosa di impossibile, di drammatico. E il rapporto con i genitori è uno di quelli più toccato da vicino da questa drammaticità. Capita non di rado, infatti, che i ragazzi avvertano, da parte dei genitori, una sorta di obbligo a proteggerli anche oltre i termini naturali dell’infanzia. E questa aspettativa fuori tempo e fuori luogo può produrre uno stato di disagio molto importante nella relazione con i genitori. Una complessità particolare, un livello di sofferenza mai visto prima. Spesso, dunque, c’è una tematica che ha a che fare con una separazione impossibile. Quello che una volta poteva essere il grande conflitto che l’adolescente stabiliva con chi rappresentava le generazioni passate, quindi con tutti i rappresentanti dell’istituzione, del potere, della famiglia di tutto ciò che rappresentava il mondo esterno, oggi si presenta in maniera molto diversa. Non si presenta in termini di conflitto con l’autorità ma si presenta in termini di un senso di persecuzione rispetto a chi in qualche modo cerca di incarnare questa dimensione.
Dopo ogni crimine si parla sempre di “segnali” non colti nonostante fossero evidenti…
Proviamo a distinguere tre casi di massima. Facendo un ragionamento un po’ naif, potremmo identificare i soggetti che commettono crimini in adolescenza in tre categorie principali: gli impulsivi, gli obbedienti e i sofferenti. Gli impulsivi sono quei ragazzi che non riescono ad avere un corretto confine rispetto alla propria pulsionalità. Sono i figli delle famiglie multi problematiche, coniugi che non ce l’hanno fatta a perseguire il proprio ruolo genitoriale. In questi casi, per come parlano e anche per come si presentano visivamente si nota subito la dimensione aggressiva e trasgressiva del loro comportamento. Gli adolescenti impulsivi si riconoscono a prima vista.
Degli obbedienti, invece, che dire?
Parliamo di soggetti che in qualche modo sono legittimati dalla propria appartenenza nel commettere un’azione aggressiva, un reato. Ad esempio quello di un figlio legato a una cosca della criminalità organizzata. In questo caso molto spesso il primo crimine è quasi un rito di passaggio che sancisce l’ingresso all’interno della dimensione delinquenziale. Possiamo fare anche l’esempio delle gang, dove non c’è una famiglia naturale ma quella sociale di cui si dota quell’adolescente. In quel caso il crimine non risponde a un cedimento, a un impulso bensì a una regola sociale, che è quella del clan che t’impone di fare determinate cose per stare dentro delle regole. Anche in questo caso, dunque, i segnali ci sono ma riguardano le appartenenze culturali di questi ragazzi, l’ambiente in cui vivono.
E arriviamo al terzo caso, quello dei sofferenti…
È quello più complicato e molti casi di cronaca appartengono a questo contesto: i ragazzi che sono vissuti in un ambiente non necessariamente viziato da elementi d’incapacità e inadeguatezza. Il contesto, quindi, potrebbe essere anche adeguato e proprio per questo ha prodotto in qualche modo ragazzi apparentemente adattati ma che in realtà soffrono di un rapporto con l’altro, strutturalmente viziato da un’estrema sensibilità. C’è qualcosa, quindi, che non funziona, il confine tra lui e l’altro è arroventato, basta pochissimo per sollecitare in loro, ad esempio, un bisogno di vendetta. In pratica c’è qualcosa di strutturalmente malato nel rapporto con l’altro. Questi segnali, però, non necessariamente si vedono; potrebbero essere quei ragazzi che nelle interviste del giorno dopo un crimine, sono definiti bravi ragazzi, persone dalle quali non si sarebbero mai aspettati simili gesti. Per cogliere i segnali, dunque, occorre un’osservazione più accurata. Ecco perché, a mio avviso, andrebbero potenziati gli strumenti a disposizione degli adolescenti in quest’epoca.
Tipo?
Ad esempio gli sportelli di ascolto nelle scuole. Tenendo presente che i genitori non possono più esserci come c’erano prima. Ripeto, i ragazzi devono separarsi dai genitori per potersi individuare.
Secondo lei la mutazione attraversata dalla famiglia nel corso degli anni, può avere qualche responsabilità? I figli sono seguiti meno oppure in maniera sbagliata?
I figli non si sono mai seguiti come in questo periodo, direi che c’è un eccesso di attenzione… Lo dice anche la sociologia, non sono stati mai al centro come in questa epoca. La famiglia affettiva è molto diversa da quella normativa della fine 800 inizio 900. Il bambino, che Freud definiva piccolo, perverso e polimorfo, era un soggetto che semplicemente andava adattato forzosamente alle regole sociali e quindi gli s’imponeva, a colpi di bacchetta sulle mani, un’educazione che era finalizzata al corretto comportamento. Cioè i bambini dovevano stare alle regole ed essere cresciuti in modo da uniformarsi alle regole sociali. E l’attenzione al bambino non c’era, c’era la madre, ma solo per quello che riguardava i suoi doveri di osservazione della crescita del bambino.
Un eccesso di attenzione che riguarda anche il tempo libero dei figli?
Una volta i genitori nemmeno sapevano dov’erano i figli…
Probabilmente perché è cambiato il contesto sociale, prima rimanere fuori fino a tardi faceva meno paura…
Certamente, oggi sono considerati più in pericolo di una volta e quindi c’è un’attenzione maggiore.
Oggi però camminare di notte, magari in una determinata strada, suscita più timore rispetto, ad esempio, a quarant’anni fa…
Il numero dei crimini commessi dagli adolescenti, ad esempio da trent’anni fa a oggi, è sempre quello, circa 60 mila l’anno. Da quando esistono le statistiche, sostanzialmente i dati sono rimasti quelli, cambiano le tipologie di reato. All’epoca subivamo lo stesso numero di rapine, oggi il livello di pericolo della circolazione per le strade, rispetto ad esempio agli anni 70, è fondamentalmente identico.
Come mai, allora, non c’è giorno senza il racconto di un tragico fatto criminale? Non può essere mica frutto della fantasia dei media…
I media hanno sicuramente giocato un ruolo molto importante. Dedicano grande attenzione ai crimini commessi dagli adolescenti perché sanno perfettamente che la trasgressione adolescenziale vende…
Se si vende, però, vuol dire che a monte c’è una domanda…
Sicuramente sono cose che colpiscono… I genitori, leggendo determinate notizie e magari vedendo il figlio costruirsi un’area segreta in cui loro non riescono a entrare, magari perché ha delle conversazioni privatissime con certi amici, oppure ha un mondo online dal quale ormai sono drammaticamente esclusi, si chiedono: ma noi in casa potremmo avere una Erika o un Omar? (i due fidanzati minorenni che nel 2001 uccisero la madre e il fratellino undicenne di Erika, ndr). Potrebbero essere i nostri figli? Questa cosa, dunque, che provoca una preoccupazione per certi versi anche legittima da parte dei genitori, sicuramente è anche un tema che fa sì che ci sia un’attenzione particolare, soprattutto a quei casi che sono apparentemente inspiegabili e inspiegati. Vicende che vedono prima la ricerca del mostro e poi cosa l’ha reso tale. Le risposte sono semplici: il consumo di droga, l’alcol, la follia… Tutto ciò, allora, è rassicurante: sì, c’è il crimine dell’adolescente, però era drogato, era mentalmente disturbato, eccetera. E più o meno si termina così: meno male, allora non può essere mio figlio, tutto è risolto. Invece non è così…
Cioè?
Non è tutto risolto perché il problema un po’ c’è e arriva da quella categoria di cui parlavamo prima, i reati commessi dai minori sofferenti.
In base alla sua esperienza, qual è l’atteggiamento tipico dei genitori di ragazzi che hanno commesso dei crimini?
Il meccanismo tipico di difesa è sempre quello di scindere e proiettare. Scindere il bene dal male e proiettare il male al di fuori. Si ostinano a difenderli sempre e comunque, cercando qualunque tipo di appiglio pur di non credere alla loro colpevolezza. Pensare quindi che siano immediatamente degli alleati della Legge è un’illusione… Molto spesso preferisco ascoltare prima i ragazzi, magari cercando di sollecitare in loro quello scampolo di responsabilità, quell’ammissione che permette di capire la posizione effettiva del ragazzo rispetto al reato che è stato compiuto. Solo dopo ascolto i genitori. Loro credono al proprio figlio e lo difendono sempre, questo perché, presumibilmente, molto spesso hanno una struttura etica più solida di quella del loro figlio. Nel pensare a un figlio che ha commesso un reato, si giocano sia la loro immagine interiorizzata del bambino che è stato, sia la loro identità di genitore. Sono due, pertanto, gli elementi di autostima messi fortemente in tensione. Per certi versi l’adolescente autore di quel reato è più facile da muovere verso una dimensione di responsabilità e di consapevolezza. Pensi ad esempio ai reati sessuali. Un genitore non crederà mai che il proprio figlio abbia commesso una cosa del genere. Bisogna allora farglielo dire dal figlio oppure portare la testimonianza del figlio come elemento probatorio. A quel punto anche il genitore potrà convincersi che non è stato irretito da qualche ragazza che lo ha sedotto per poi simulare un abuso che non c’è stato.
A proposito dei reati sessuali, negli ultimi vent’anni si è registrato un preoccupante incremento progressivo di crimini commessi da adolescenti. A suo avviso perché?
La causa è la stessa che è alla base anche della commissione di molti reati degli adolescenti. Riguarda sempre un elemento di capacità di relazionarsi con l’altro, in questo caso con l’altra, che è radicalmente in crisi, che è drammaticamente in difficoltà. I ragazzi che commettono reati sessuali, non a caso sono spesso al confine della minima età imputabile e sono, nella gran parte, ragazzi con strumenti molto modesti, ridotti.
Per strumenti cosa intende?
Strumenti culturali, di comunicazione con gli altri, di capacità sociale. La loro bellezza sociale è molto modesta, si sentono impotenti socialmente e sessualmente. Lo stato d’impotenza, quindi, l’incapacità di potersi relazionare con l’altro, di convincere una ragazza, entro un tempo ragionevole, a condividere l’esperienza della sessualità, la loro disperazione rispetto al fatto di non essere socialmente sufficientemente pronti e quindi non riuscire a stare al passo con gli altri, rappresentano un motore importante. È l’humus su cui nasce la disponibilità di alcuni ragazzi a credere alla storia di una sessualità che si trasforma in un gioco. Una sessualità facile, regalata all’interno di quello che sembra a loro, al momento in cui la mettono in atto, semplicemente un surrogato di un rito di passaggio. Io dovrei affrontare il tema della seduzione, della relazione con una donna che mi sembra irraggiungibile, non penso di riuscire a farlo e allora se capita l’occasione – guarda, andiamo da quella lì che ci sta – io credo anche a ciò che è poco credibile. Credo, ad esempio, che davanti a un gruppo di adolescenti, una ragazza possa avvertire il desiderio di condividere con tutto il gruppo una sessualità che evidentemente, in quel momento, è coartata, magari non fisicamente ma sicuramente dalla paura che quella ragazza ha di fronte al gruppo.
I social network che ruolo giocano?
Rappresentano l’universo dove gli adolescenti vivono, potremmo dire che le loro relazioni si giocano prevalentemente nel mondo social. Da questo punto di vista non sono assolutamente una realtà che si può annullare, di cui fare a meno. È del tutto insensato, dunque, che il genitore pretenda che il figlio non li utilizzi. Il problema generale dei social network, sulla base della mia esperienza, credo sia soprattutto la straordinaria capacità di accentuare a dismisura i sentimenti. Quello che avviene online prende sempre una forma un po’ iperbolica, tutto facilmente estremizzabile.
Scartata la possibilità del divieto, qualche filtro, però, potrebbe essere pensato…
Direi di sì, ma di quali filtri parliamo quando noi, figli di generazioni precedenti a i nativi digitali, di queste cose non sappiamo praticamente nulla? È difficile intervenire quando gli adolescenti di oggi ne sanno dieci volte più di noi… Loro vivono in un mondo nei confronti del quale, spesso, gli adulti si mostrano incompetenti. La sua preoccupazione ha una ragione di fondo, noi adulti abbiamo assolutamente il compito e l’obbligo di conoscere le difficoltà che i nostri figli affrontano quando vivono all’interno del mondo virtuale. Il problema, però, è la nostra assoluta incompetenza nell’affrontare questo mondo. Di fatto non ne sappiamo nulla e con una certa arroganza pretendiamo pure di metterci becco…
Sta dicendo quindi che dovremmo andare a scuola di social network…
Proprio così. Sarebbe assolutamente sensato fare dei corsi agli adulti, cioè pensare che facciano il possibile per informarsi sulle regole di quel mondo… Sappiamo, ad esempio, perché un ragazzo apre un profilo Telegram piuttosto di Instagram? Siamo a conoscenza delle differenze tra Instagram e Facebook? Ciò che si può pubblicare su uno e sull’altro? Sappiamo cosa si può fare su WhatsApp che invece è impedito su Facebook? A noi mancano le basi per pensare di entrare in quell’universo. Certamente un controllo sarebbe auspicabile, soprattutto mantenere una certa tempistica riguardo l’accesso degli adolescenti a questi strumenti. Ormai anche prima di dieci anni ci sono bambini che ne fanno uso…
Che cosa spinge un giovane a non uscire più di casa scegliendo di vivere una realtà virtuale?
Quella è l’unica vita che sente di poter affrontare, dal punto di vista tecnico rappresenta una relazione di dipendenza. Siccome il rapporto con l’altro è diventato troppo arroventato, complicato, scelgo un universo più protetto in cui tra me e l’altro c’è sempre, comunque, uno strumento. E quindi in quel mondo non ho più un corpo, non ho più una mente ma sono solo quello che trasmette attraverso i messaggi e quindi riesco a controllare molto di più quella che è la mia immagine sociale e l’opinione che gli altri hanno di me. Se infatti esco di casa e sono vestito male, ho i brufoli, oppure dico una cosa sbagliata, non sono simpatico e sufficientemente bello socialmente, gli altri lo vedono e lo sentono. Indipendentemente dalla mia volontà…
Nel suo ultimo libro paragona il crimine alla pioggia… Perché?
Mi riferisco al problema della responsabilità. Il crimine è agito dagli adolescenti che in qualche modo vivono una sorta di corto circuito del sistema simbolico. È come se l’adolescente avesse un fortissimo bisogno di esprimere dei contenuti profondi, di cui magari non è del tutto consapevole, ma a volte non riesce a farlo, né con le parole, né con altri strumenti di espressione. E quando le questioni che ribollono nella pentola sono molto importanti, molto pesanti, a volte l’unico strumento che l’adolescente trova a disposizione è agire attraverso la propria presenza fisica nel mondo.
Ci fa un esempio?
Se uccido una persona che non conosco, è chiaro che la questione è tutta interna. Il reato, quindi, è come la pioggia perché il ragazzo che compie quel crimine non sa perché ha ucciso o ha fatto male a quella persona che non conosceva. Non ci può dire quindi il perché. L’ha aggredita per un conflitto interno, per una narrazione interiore che magari delle volte può assumere anche delle valenze deliranti. Di quel racconto, però, lui non sa nulla perché se fosse riuscito a metterlo in parole, cioè a dire della sua sofferenza in un altro modo, non avrebbe avuto bisogno di commettere il reato. Il reato, pertanto, diventa l’effetto di un cortocircuito simbolico che fa sì che quell’azione corrisponda a un profondo significato simbolico. È una parola non detta, è l’effetto della castrazione della parola. Ecco perché, quando arrivano da noi, loro non sanno nulla del perché e quindi vivono il reato come noi potremmo vivere la constatazione del tempo meteorologico. Oggi c’è il sole, oggi piove, oggi sono stato coinvolto in un omicidio, mi sono trovato ad ammazzare una persona… Quasi come se non gli appartenesse. Con i ragazzi che commettono tali reati, occorre pertanto un lavoro importante, attraverso il quale, lentamente, gli operatori della giustizia, spesso eccellenti, arrivano a portarli alla constatazione che loro c’erano. È un lavoro di avvicinamento del ragazzo al luogo psichico in cui è avvenuto il reato. Dove è stata presa quella decisione.
Il ruolo della scuola come potrebbe essere d’aiuto?
La scuola ha un ruolo importante perché è il primo luogo di socializzazione dei ragazzi al di fuori della famiglia. È il luogo dove incontrano delle frustrazioni non più eludibili perché lo scopo primario del docente, durante la fase adolescenziale, è sicuramente valutativo. Essendo dunque un luogo al di fuori della famiglia, e quindi non più un interlocutore privilegiato, gli adolescenti cercano aiuto quando si trovano di fronte alle prime sofferenze. È quindi è importante essere attrezzati.
In che modo?
In Italia la stragrande maggioranza delle scuole ha gli sportelli di ascolto. Da sempre, però, auspico quello che esiste già a livello regionale, cioè una psicologia all’interno del mondo scolastico che conviva con la scuola e interagisca strutturalmente con il sistema scolastico e che sia sempre presente. C’è bisogno di una legge sulla psicologia scolastica a livello nazionale. Esistono delle lodevoli iniziative a livello regionale, ma l’Italia è rimasta uno dei 3-4 Paesi in Europa a non avere una legge che stabilisca l’obbligo di una collaborazione tra psicologi e scuola. Non si capisce perché si debba rimanere così drammaticamente indietro su una questione così essenziale come il supporto psicologico degli adolescenti a scuola.