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DIRITTO ALL’EGUAGLIANZA

Al di là della disputa politica e delle posizioni dei partiti, gli studenti stranieri nelle scuole italiane sono sempre di più. Soprattutto al Nord (64 per cento) rispetto al Centro (22 per cento) e al Sud (12 per cento)

In Italia la scuola multietnica è una realtà. E non da oggi. Lo dicono i dati: gli studenti stranieri, privi cioè della cittadinanza italiana, sono tornati a crescere dopo una flessione dovuta alla pandemia da Covid di quattro anni fa. Oggi sono quasi 900mila, per la precisione 894.624, secondo i dati più recenti del ministero dell’Istruzione relativi all’anno scolastico 2022/23. Quasi 25mila in più rispetto all’anno scolastico 2020/21, il primo in cui era stato segnalato un calo dopo la crescita costante iniziata dalla metà degli anni ottanta. Non è un caso che la ripresa delle lezioni, quest’anno, sia stata caratterizzata dal dibattito politico sullo “ius Scholae”, l’iter che lega l’acquisizione della cittadinanza italiana per gli stranieri al compimento di un percorso di studi in un Paese. La proposta di legge approvata solo alla Camera nella scorsa legislatura, prevede che un minore, nato in Italia o che vi abbia fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età e risieda legalmente nel nostro Paese, possa acquisire la cittadinanza qualora abbia frequentato regolarmente, per almeno cinque anni sul territorio nazionale, uno o più cicli scolastici. Altre proposte di legge sullo “ius Scholae” estendono il periodo formativo a 10 anni o al compimento di tutto il percorso della scuola dell’obbligo. In questa legislatura l’approvazione della legge si è arenata per la forte contrarietà di tre partiti della maggioranza di governo, Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia.

Da anni in Italia si discute di una riforma sostanziale, al passo con i tempi, della legge sulla cittadinanza visto che quella attuale risale al 1992. Un’era fa. Una norma che si basa sul cosiddetto modello dello “ius sanguinis”, il “diritto di sangue”, che in sostanza prevede che un bambino è italiano se lo è (e quindi anche se lo diventa) almeno uno dei genitori. Un bambino nato da genitori stranieri, anche se è nato sul territorio italiano, può invece chiedere la cittadinanza solo dopo aver compiuto 18 anni e se fino a quel momento abbia risieduto in Italia “legalmente e ininterrottamente”.

Al di là del dibattito politico e delle posizioni dei partiti, gli studenti stranieri nelle scuole italiane sono sempre di più. Soprattutto al Nord (64 per cento) rispetto al Centro (22 per cento) e al Sud (12 per cento).

La sfida dell’integrazione inizia proprio sui banchi di scuola. Con alcuni casi particolari come, ad esempio, la scuola di via Paravia a Milano, nel quartiere delle case popolari di San Siro, dove la totalità degli alunni di origine straniera sfiora il 100 per cento. Una realtà che riflette il quartiere nel quale si trova dove vivono persone di tante origini differenti e da dove gli italiani sono fuggiti con molte case popolari, Aler, abitate (e in certi casi occupate) da immigrati e dove è molto forte il rischio di creare un quartiere ghetto. La preside è Annamaria Borando, che guida il vicino istituto superiore “Galilei-Luxemburg”, ed è la reggente di questa scuola primaria: “La scuola è il riflesso della popolazione che abita qui. La maggioranza è arabofona, nelle classi abbiamo soprattutto alunni di origini egiziane, romene, pochi sudamericani – ha spiegato – i pochi italiani che abitano qui vicino vanno nelle scuole paritarie. Con tanti stranieri in classe temono ritardi nei programmi e che i figli subiranno contraccolpi per aspettare gli altri. Non è così: sono nati in Italia, ci sono alunni intelligenti e con difficoltà come nelle classi di tutto il mondo. E proseguono alle medie, dove la popolazione straniera è intorno al 30% e le richieste sono altissime”. Borando racconta come è possibile gestire la sfida dell’integrazione, a partire dalla didattica innovativa: “Alla Paravia abbiamo introdotto il metodo Pizzigoni, che era stato creato per le famiglie che arrivavano dal Sud e parlavano solo il dialetto. È stato riattualizzato, ma è basato sempre sull’osservazione della realtà e funziona. Siamo seguiti dall’università Bicocca: è un polo di sperimentazione didattica, attrae i docenti. C’è chi sceglie di venire qui. È faticoso, ma permette di innovare. Insegnare in un contesto così o dirigerlo non può essere un ripiego. La scuola è un presidio: qui la didattica viene dopo l’aspetto relazionale. Se non ‘catturi’ gli studenti non puoi insegnare matematica. Ma non è tempo perso, permette di raggiungere tutti gli obiettivi”. Borando si è detta molto preoccupata della dispersione scolastica: “Per arginarla – ha spiegato – bisogna puntare su un organico stabile e sul rapporto con le famiglie, non sempre facile anche se molto sta cambiando. A giugno abbiamo invitato le famiglie dei futuri primini a visitarci: sono venute tutte”.

Per Borando pensare di applicare una quota del 30 per cento di stranieri in una scuola è impraticabile qui. “Non è tempo di generalizzazioni, bisogna capire le singole realtà. Se ho tanti bimbi stranieri che abitano vicino non posso spostarli altrove”. Mentre sullo “ius Scholae” ha detto che “è importante discuterne, anche se i nostri ragazzi non sentono questa problematica. Si sentono italiani, hanno altre priorità: pensare al futuro, al lavoro, a finire la scuola. Alla quale sono legati. Per chi è in condizioni di fragilità è l’unico modo per andare al cinema, a teatro, per imparare l’inglese e vivere esperienze che non potrebbero permettersi altrimenti”.

Nora De Luca è una maestra di scuola elementare e ha scelto di firmare con uno pseudonimo il suo ritratto della scuola multietnica dove insegna nel libro I figli degli altri (Mondadori). De Luca descrive la realtà scolastica partendo dagli “scolari”: l’intrepido Scardozza, la struggente Mia, Gianni dal Senegal, Alberto che alla lavagna scrive frasi incomprensibili. Il libro è un racconto di cosa vuol dire, concretamente, insegnare in una scuola multietnica, dai rapporti con gli studenti alle difficoltà che molti hanno con la lingua italiana fino ai colloqui con le famiglie. “Sono seduta accanto alla mia collega. Ci sono i colloqui – racconta De Luca – la classe è scalcagnata come di solito dopo una giornata in cui ha ospitato 25 persone. I genitori dei nostri alunni si siedono davanti a noi, in questi piccoli banchi e ci chiedono, ci raccontano. Entra la madre di Malia, una signora pakistana. Ci guardiamo stupite, è la prima volta che la vediamo a un colloquio e, in generale, capita più spesso di incontrare i padri dei bambini che vengono da questi Paesi. Le madri, come in questo caso, hanno una maggiore difficoltà nel parlare italiano, a volte sono addirittura intimidite dall’incontro con noi per il semplice fatto che siamo italiane e siamo una cosa con la quale non hanno dimestichezza. Si fa coraggio – prosegue l’insegnante – e ci parla e quello che ci racconta non riguarda direttamente sua figlia, riguarda lei. Il marito l’ha lasciata. Ha trovato un’altra donna. Lei non ha lavoro, sa parlare poco, non sa come fare. A quel punto si mette a piangere. Nessuno l’aiuta, dice. Non sa a chi chiedere. La mia collega allunga le mani sul banco, gliele prende, gliele stringe. Restiamo un momento a guardarci. Prima di fare la maestra gli stranieri che abitano nella mia città li incontravo sugli autobus, li vedevo camminare per strada, mi vendevano un litro di latte se l’avevo dimenticato e non avevo voglia di arrivare fino alla Coop. Qui, a scuola, abbiamo iniziato ad abitare insieme lo stesso spazio, a conoscerci. Attraverso i loro figli ho sentito raccontare come si vive a casa, cosa si guarda alla tv, come si passano insieme le serate. Sono diventati parte delle mie giornate”.

De Luca racconta nel libro di un caso di una bambina della sua classe sempre silenziosa: “Non parla con me, ma non parla neanche con altri. Sta zitta, con uno sguardo molto serio e concentrato per otto ore – scrive l’insegnante – tutti i giorni. Si capisce che è sveglia, che è intelligente. Le abbiamo provate tutte, l’approccio informale, simpatico, scanzonato, il pippone sulla vita. Non funziona niente. Zitta. Parla solo sotto tortura e anche in quel caso, a monosillabi. Sotto tortura intendo che riceve sollecitazioni esplicite a voce (si capisce, vero?) che probabilmente per lei corrispondono a una seduta di tortura con ferri roventi. La mediatrice ci ha detto che succede, a volte. A casa c’è un modello, un modo di vivere, di fare le cose, anche solo di essere femmine. A volte ti viene paura che ad allentare un po’, a mescolarti un po’ con qualcosa di tanto diverso chissà poi cosa ti succede. Oggi il nostro lavoro è anche un po’ questo. Stare sui confini, allungare una mano. Aiutare chi arriva a entrare. Aiutare chi c’è a capire”.